Adagio. In tre quarti. Epilogo

Tutto inizia qui

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Non li pettino mai i capelli. Se pure volessi farlo non ci riuscirei, sono sempre così aggrovigliati, così annodati l’uno all’altro da farmi desistere da qualsiasi ipotesi di ordine. A volte riesco a intravedere qualche ciocca liscia che si perde nel caos dei ricci. E allora sorrido, perché l’idea d’avere un difficile equilibro sulla testa, d’essere soltanto un corpo attaccato alle forme imprevedibili della mia esistenza mi fa sorridere, nient’altro.

Paolo dice che prima o poi perderò quell’aria da ragazzina incavolata, che la smetterò coi discorsi sulla precarietà e che, magari un po’ a fatica, diventerò adulta anche io. Lo dice dopo aver elencato con una incomprensibile soddisfazione la gradazione alcolica delle birre del venerdì in cui Maria festeggiava l’assoluzione del suo ultimo cliente, un jazzista con la fissa per la droga su cui lei ripiegava di tanto in tanto, quando l’amore per Paolo si schianta contro il muro del rifiuto.

È tipico di Paolo giudicare le scelte degli altri, suggerire strade che lui non ha mai battuto né mai considererà  ma che, da abile cialtrone, descrive come sentieri conosciuti, come esperienze ampiamente sedimentate. Assume quest’aria ogni volta che valuta la mia condizione, aggiungendo sempre che sono fortunata ad aver incontrato Maria.

E già, sono fortunata, mi dico anch’io, sono fortunata a convivere con una ragazza che ha la sensibilità di un mattone forato e che ha fatto di me il suo caso umano, il trofeo strappato alla precarietà abitativa che le permette, venerdì dopo venerdì, di reggere conversazioni  ipocrite sulle diseguaglianze sociali, sul ruolo propulsivo di chi, come lei, ha gli strumenti intellettuali e materiali per generare un’inversione di tendenza, magari occupandosi di gente come me.

Come altre volte prima, pure quel lunedì era servito per ribadire che sono fortunata ad avere incontrato Maria e mentre parlava, Paolo mi guardava i capelli. Disse che erano sporchi, che c’era qualcosa là in mezzo – disse così -.

Finsi di non sentire, ma non mi lasciava in pace. Continuava a girarmi intorno, a chiedere di Maria. Mi sembrava agitato. In fondo, mi conosceva così poco e probabilmente nei discorsi del venerdì sera Maria aveva evitato di raccontare dei miei atteggiamenti da sociopatica, come diceva lei, per paura di rendere la sua storia meno attraente agli occhi degli altri democratici rivoluzionari.

Paolo stava diventando inquieto, voleva prendere il cellulare e chiamare Maria.

A quel punto chiusi il rubinetto dell’acqua calda. Mi girai lentamente verso di lui e gli chiesi se gli fosse mai capitato di dover inviare centinaia e centinaia di curriculum vitae, di dover togliere o aggiungere competenze a seconda del datore di lavoro; gli domandai se avesse mai dovuto fingere di non aver frequentato l’università per paura di sentirsi dire di non essere adatto a questo o quel lavoro. Paolo non capiva.

Mi guardava stranito mentre gli domandavo se mai gli fosse capitato di dover chiedere il sussidio di disoccupazione o se mai avesse avuto modo di annotare sulla sua strafiga moleskine da intellettuale il numero delle volte in cui dall’altra parte della cornetta aveva sentito la parola “puttana” di fronte alle sue proposte di cambiamento dei piani telefonici.

Paolo sudava. Lo vedevo dal suo foulard color cachi. Continuava a chiedere cos’avevo fra i capelli, a dire che non capiva il perché di quelle domande. Risposi solo che Maria non sarebbe tornata, che avevo ucciso il posto fisso e che in pochi minuti anche lui si sarebbe scrollato di dosso un po’ della monotonia delle sue giornate.

Lui … lui che, invece, avrebbe voluto viaggiare, magari scrivere un romanzo.

È andata così fra di noi.

Di Maria, Paolo e me rimane solo qualche ricordo buttato giù poco alla volta, venerdì dopo venerdì, nello spazio che mi rimane fra un antidepressivo e il medico che si occupa di me. Anche lui, come Maria, si occupa di me… di me che avrei voluto viaggiare, magari scrivere un romanzo.


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